Beatrice Savoldi è un architetto di successo e ama la sua vita: giornate piene di progetti e di impegni, divisa fra lo studio, la casa, il marito e i tre figli. Tutto cambia all’improvviso una mattina all’alba quando il suo primogenito, Davide, muore in un incidente stradale.
Da quel momento si rifugia nella sua camera, interrompe la sua vita e comincia il suo personale letargo. Non permette a nessuno di scalfire la prigione di ghiaccio in cui si è rinchiusa.
Dopo mesi trascorsi in questo abisso fatto di dolore (“perché proprio mio figlio?), rimpianti (“se l’avessi abbracciato di più”), rimorsi (perché l’ho sempre ostacolato nel suo sogno di fare il musicista?), e rabbia (perché l’amico, invece, si è salvato?), finalmente qualcosa riesce a raggiungerla e a darle un motivo per ritornare alla vita. Paolo, l’amico di Davide che guidava la macchina nel momento dell’incidente, le rivela che suo figlio aveva un sogno di cui le avrebbe parlato proprio il giorno in cui è morto: ristrutturare una casa antica scoperta per caso per farne un grande centro musicale, culturale e artistico.
Nel primo sopralluogo in questa casa addormentata da decenni Bea ritrova delle lettere e un diario scritto da una certa Camilla. Scopre così che qui ci abitava lei con suo marito e il figlio Roberto, partito nel 1942 per il fronte. Gli avvenimenti, raccontati direttamente da Camilla che sembra ritornata da un passato ormai lontano, le fanno scorrere davanti agli occhi le immagini sconvolgenti della seconda guerra mondiale, i rastrellamenti, le deportazioni degli ebrei, le sofferenze e le privazioni.
Le lettere, il diario e anche la casa trasformano giorno dopo giorno il dolore di Bea in qualcosa che le danno la forza di voler realizzare il sogno di suo figlio. È consapevole che ristrutturare la casa di Camilla corrisponde a ristrutturare anche la sua vita.
Solo dopo molto tempo Bea fa un’altra scoperta: sia lei che Camilla scrivono lettere ai propri figli e scelgono con cura e amore le parole da posare sui fogli: sentono che così li abbracciano e ne avvertono il calore. In questo modo, danno parole al proprio dolore, perché il dolore che non parla bisbiglia al cuore inzuppato e gli ordina di spezzarsi (W. Shakespeare, “Macbeth”, atto IV, scena III).
In tutta la narrazione si alternano passato e presente, Camilla e Bea, Roberto e Davide e ci si rende conto che i sentimenti, le emozioni e i contrasti che agitano l’animo umano non sono cambiati e si mescolano di continuo. E che spetta a ognuno di noi, comunque, decidere se far prevalere l’amore e la speranza. La vita, insomma.
Questa storia è per chi si trova in mezzo a sconfinate distese di sabbia sferzate da un vento incessante, solo e privo di forze. Ovunque sposti lo sguardo non vede nulla, non sente nulla. Eppure… è proprio qui che può ritrovare la sua anima e, finalmente, attraversare il suo personale deserto.
Letizia Guagliardi
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