
Oggi condivido un estratto del mio nuovo libro “Ti scrivo per abbracciarti”.
Beatrice Savoldi, architetto di successo, è una donna molto impegnata e nelle sue giornate, molto intense, si divide fra la sua famiglia (un marito e tre figli) e uno studio fra i più rinomati della città. Ma, un giorno, per lei tutto si ferma: il suo primogenito, Davide, muore in un incidente stradale. Lei, da quel giorno, si rinchiude nella sua camera, come in un bozzolo fatto di dolore, rimpianti, e rabbia:
Oggi è il 5 aprile. Lo dice il calendario. Oggi Davide compie vent’anni.
Bea stringe gli occhi. Avresti compiuto vent’anni. Non escono lacrime dai suoi occhi. Non possono. Perché lei ha desiderato morire, davanti allo specchio, e forse c’è riuscita. Non fisicamente, certo, eppure lei si sente morta. Parla poco, mangia poco, si lava e si veste quando Irene la costringe. Non gira più per casa, sì è rinchiusa nella sua camera, come se fosse una cella. I figli, il marito, Irene e Carlo vengono a controllarla spesso e lei ignora i loro sguardi preoccupati. Lei non permette a nessuno di loro di penetrare nella sua fortezza. Vuole rimanere lì dentro, perché lì dentro il suo Davide è vivo. Uscire allo scoperto significa accettare che lui è andato via per sempre.
La primavera è testarda. Nonostante il gelo dell’inverno lei ritorna frizzante e spavalda ogni anno, con i suoi tepori e le sue promesse. Bea se n’è accorta che è arrivata, anche quest’anno, e prova una grande rabbia. Come ha potuto essere così sfrontata? Non l’ha forse saputo che Davide non c’è più? Che non può più andare in giro in bici, non può più raccogliere le margherite e portargliele, e sistemargliele sui capelli e dietro le orecchie?
Lei se n’è accorta del suo arrivo perché la vestaglia grigia di lana pesante la fa sudare, dalla finestra il cielo azzurro e sereno la sfida, le giornate si sono allungate e lei invece ora preferisce il buio, non quel sole che non vuole più andare a dormire tanto presto. Come un bambino che gioca e si sta divertendo.
Silvia, nella tarda mattinata di un sabato, bussa alla sua porta. Bea riconosce la sua voce e l’invita ad entrare. La figlia le mostra felice il foglio rosa, ha appena superato l’esame di guida. Lei le dice brava! ma prova vergogna. Aveva dimenticato che andava a Scuola Guida. Le viene in mente il giorno in cui anche Davide aveva preso la Patente. Lei aveva fatto un dolce, per festeggiare, lui le aveva fatto fare un giro in macchina. Ora teme che anche Silvia si aspetti un dolce da lei.
Signore… fa che non mi chieda di fare un giro in macchina con lei!
Ma Silvia non le chiede niente, né il dolce né il giro in macchina. Ha imparato a leggere dietro gli occhi di sua madre.
Carlo viene a giorni alterni, quando finisce di lavorare allo studio. Le sembra passato un secolo, almeno, da quando lei ci ha messo piede per l’ultima volta. Lui la informa sui progressi dei tirocinanti, le porta i loro saluti, le chiede consigli sul progetto a cui stanno lavorando.
Qualsiasi cosa dica Carlo, però, su di lei scivola come l’acqua su un tessuto idrorepellente. Ecco… lei è diventata repellente a tutto. Bruciasse la casa, lei sarebbe contenta di bruciare insieme a lei. Arrivasse una tromba d’aria, lei sarebbe felice di entrare nel suo vortice ed essere portata via.
Ma non succede niente di tutto ciò. La vita scorre tranquilla, la sua casa continua a rimanere in piedi, Gabriele, i suoi figli e tutti gli altri stanno bene.
E’ la fine di luglio, ormai, ma per Bea è sempre inverno. Dentro e fuori di lei.
Dopo la primavera, anche l’estate è arrivata puntuale. Un’altra sfrontata.
Enrico è stato promosso in prima media, con ottimi voti. Silvia si è diplomata con 100. Lei ne è stata felice, naturalmente, quando entrambi sono entrati nella sua camera e gliel’hanno comunicato. Felice ma incapace di dimostrarglielo.
E’ spenta, nessuna emozione traspare dai suoi occhi, per cui qualsiasi parola di lode rivolga ai suoi figli risulta fredda e distaccata. E questo la fa sentire ancora peggio.
Oddio che… vergogna! Possibile che… mi fa rabbia che gli altri miei due figli, il sangue del mio sangue… stiano ottenendo ottimi risultati mentre…
No… non è possibile… che madre sono diventata!
-Ho detto… usciamo a fare una passeggiata? – le ripete Gabriele.
-No. Non mi va.
-Dimmi tu una cosa che ti va! Non capisci che se non ne parliamo rischiamo di allontanarci l’uno dall’altra? – grida lui esasperato.
-E di cosa vorresti parlare… eh? Del fatto che lui è morto e il suo amico invece è vivo?
-E’ stato un incidente! Ancora non si sa come è successo esattamente. L’amico… Paolo, non superava il tasso alcolico, non si sa se si è distratto o che altro… si è ripreso solo da poco tempo… ha riportato diverse ferite…
-Però è vivo! E invece…
-Basta! Pensi che dare la colpa a Paolo faccia ritornare in vita Davide?
-Certo che no! Ma perché è capitato a Davide? Perché è capitato a noi?
Inizia a piangere. Gabriele le tende una mano ma lei si ritrae.
-Mi aveva detto che avrebbe fatto tardi… e invece non è più tornato. Era così contento quando l’ho sentito al telefono… doveva parlarmi di due cose… Era così pieno di vita e adesso è morto! E sono morta anch’io… – singhiozza sempre di più.
-E invece devi trovare la forza di tornare a vivere. Anche per me non è facile, ci hai pensato? Però abbiamo altri due figli e non è giusto nei loro confronti. Anche loro stanno soffrendo.
Si gira ed esce dalla stanza. Bea continua a piangere. Piange per Davide e per lei, che non riesce a dare un senso a quello che è successo, a trovare un motivo per ritornare ad essere una mamma.
Ogni giorno compie sempre le stesse azioni: si alza, si lava, si veste, beve il caffè che qualcuno le porge (Gabriele? Irene?) ma per lei si tratta solo di presenze. Quello che le succede intorno non la riguarda più. Si alza di scatto, prende la chiave dal primo cassetto del comò e va dritta in camera di Davide.
Lì dentro osserva le sue cose. Sempre gli stessi gesti. Sfiora il sassofono, accarezza gli spartiti, apre l’armadio e prende uno dei suoi giubbotti. Se lo stringe al petto.
Glielo aveva visto addosso il giorno prima che se ne andasse per sempre. La sera, quando se lo tolse, le disse facendole quello sguardo scanzonato a cui lei non sapeva dire di no: – Mammina… me lo porti in lavanderia?
Invece il giorno dopo se ne dimenticò. Meno male! Così posso sentire ancora il suo odore!
Se lo abbraccia, come se volesse spremerne l’ultima goccia di vita di suo figlio.
Ha sofferto… prima di morire? Ha pensato a me, mi ha chiamata? O è morto subito dopo lo schianto? Nessuno le ha raccontato la dinamica dell’incidente e lei non ha mai fatto domande… perché preferisce questa seconda versione.
Perché non ho avuto il tempo di dirgli che sapevo che era un ottimo musicista e che lo adoravo quando suonava il sax? Perché l’ho ostacolato nella sua passione? Perché non gli ho detto al telefono quanto lo amavo?
E’ sempre ferma davanti all’armadio. Sta ancora respirando l’odore di Davide. Due pensieri, due lampi accecanti, le attraversano la testa.
Devo conservare sana la mente e non devo più pensare alla mia morte. Devo vivere, invece, e soffrire per la perdita di Davide.
Questo, proprio questo, deve essere il mio castigo.
-Tieni… – Irene le porge l’impermeabile, sopravvissuto alla espulsione furiosa di Bea dall’armadio perché incolore. Può apparire grigio ma anche, a volte, beige. Non è di un colore allegro e brillante, in ogni caso. È stata la sua salvezza. – Mettilo, dobbiamo uscire.
-Non ci penso nemmeno. E comunque… dove vorresti andare?
-Mi sono informata, qui in città c’è un’associazione di genitori che hanno perso un figlio. Si riuniscono e… andiamo a vedere!
-Scordatelo. Io non voglio parlare con nessuno e non voglio ascoltare nessuno. Perché sei così ottusa?
Si stringe ancora di più la cintura del prendisole, dello stesso colore del deserto, per proteggersi dagli attacchi di Irene.
-Ma che ci perdi… eh? Andiamo, vediamo, ascoltiamo…
-Lasciami in pace, non te lo ripeto più. Lasciami sola!
Irene sospira. Anche questo tentativo è fallito. Non è riuscita a scalfire, neppure minimamente, le pareti di ghiaccio che circondano Bea.
-Mamma! Ha chiamato papà! Enrico si è fatto male!
-Cosa? Enrico…?! – Bea farfuglia, intontita dal sonnifero che ha preso solo qualche ora fa, dopo l’ennesima notte insonne.
-Sbrigati! Dobbiamo andare al Pronto Soccorso! – la scrolla Silvia.
Oh, no… non di nuovo!
Si sveglia completamente. L’istinto di mamma ha la meglio sui farmaci. In un minuto è pronta e segue la figlia fino alla macchina.
-Che ti hanno detto di preciso… eh? – chiede Bea con un filo di voce. Si sente divorata dall’ansia. Sta rivivendo quell’altra corsa in macchina, anche allora direzione Pronto Soccorso.
-A me niente. Mi ha chiamato papà e mi ha detto di raggiungerlo in Ospedale – risponde Silvia mentre accende il motore.
Al Pronto Soccorso Bea entra di corsa e attraversa come inseguita da una muta di cani il percorso ben noto, ignorando le persone in attesa. Spalanca le porte e cerca Enrico. E’ seduto su un lettino, pallido ma vivo. L’abbraccia piangendo, lo stringe come aveva fatto con il giubbino di Davide, lo strapazza di baci sulla testa, sui capelli…
-Ehi… signora… così gli provoca qualche frattura! – la sgrida bonariamente il dottore, lo stesso che aveva comunicato a lei e a Gabriele il decesso di Davide.
-Che è successo? – Bea glielo chiede con un filo di voce.
-Niente di grave. Giocava a pallone e si è slogato una caviglia. Gliel’ho rimessa a posto e l’ho fasciata. Questo giovanotto ne avrà per una ventina di giorni.
-Grazie a Dio! – Bea fa un lieve sospiro. Gabriele e Silvia se ne accorgono e le sorridono.
-Allora ti importa ancora di me! – le sussurra Enrico in un orecchio.
-Eccome! Sono tornata, piccolo mio. La tua mamma è tornata.
E’ appena salita in macchina. Al posto di guida. È la prima volta che ci sale da allora.
Tocca lo sterzo, mette la marcia in folle, guarda avanti. Mette la prima e, pianissimo, sfiora l’acceleratore.
Le fa uno strano effetto ricominciare a guidare. Fa qualche giro nella piazzetta di fronte casa, poi azzarda un giro nei vicoli intorno. Ha scelto le prime ore del pomeriggio, infatti c’è poco traffico e poca gente. Man mano che guida si sente più sicura e si allontana, dirigendosi verso il centro. Appena vede un parcheggio libero si ferma e spegne il motore. Osserva i pochi passanti, le vetrine del negozio di calzature dove andava sempre, prima. Le scarpe lì sono sempre molto belle, il suo sguardo esperto ne valuta le forme e i colori insoliti. Ma non l’attirano più. Se anche gliele regalassero non le indosserebbe di certo. Sospira e gira la chiave dell’accensione. Spegne di colpo.
Sul marciapiedi, da quel negozio, stanno uscendo Paolo e una ragazza. Si salutano, poi la ragazza attraversa la strada, lui prosegue sul marciapiedi. D’impulso, Bea riaccende il motore e lentamente lo segue. Lui gira a destra, in una traversa a senso unico.
Lui è vivo. Davide è morto. Lui ha una ragazza, continua a suonare, fa quello che vuole. Davide non può fare più niente.
Accelera. Non sa perché, ma qualcosa la spinge ad andargli vicino, sempre più vicino.
Basta poco per investirlo. Non è difficile. Ecco… l’ho raggiunto.
Frena all’improvviso. Paolo si gira e si guardano, per un lunghissimo istante. È lei a distogliere lo sguardo per prima. Riparte sgommando. Non l’aveva mai fatto finora.
Guida veloce ed esce dalla traversa. Vuole allontanarsi il più possibile da quella zona, le sembra di sentire le sirene della Polizia che l’inseguono. Quando vede uno spiazzo isolato si ferma e si gira a guardare indietro, nel lunotto posteriore. Si rende conto che le sirene erano solo nella sua testa. Mette le mani sul volante, su di esse posa il capo e scoppia a piangere.
Smette solo quando le squilla il cellulare.
-Pronto…
-Senti… devi venire qui allo studio.
-Carlo…perché?
-Perché ho bisogno di te. Tutti, qui dentro, abbiamo bisogno di te. Quando ritorni?
-Non lo so… presto. Voglio prima sbrigare alcune cose.
-D’accordo, ma fai presto. A te piace il tuo lavoro e lo fai molto bene. Vedrai che ti aiuterà a risalire dall’abisso in cui sei sprofondata. E così… – Carlo abbassa la voce – potrai tornare a fare del bene a chi ti sta intorno.
-Che ne sai tu del mio abisso… Carlo?
-Che ne so? Dimentichi che passavi più tempo con me che con tuo marito e che ti conosco più di me stesso?
Fare del bene. Io…?!
Butta il cellulare sul sedile accanto.
Se mi avesse vista un minuto fa…quando stavo per ammazzare il miglior amico di Davide…
Bene, se sei arrivato fin qui fammi sapere, se vuoi, le tue impressioni. Grazie!
Letizia Guagliardi
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